Autori
PLINIO IL VECCHIO E PLINIO IL GIOVANE
Due pagani, vissuti nel primo secolo d.C., accolgono i visitatori del Duomo di Como: Plinio il Vecchio, autore della prima enciclopedia, la “Naturalis Historia”, e Plinio il Giovane, cui si deve uno dei più celebri epistolari dell’età classica (all’imperatore Traiano scrive tra l’altro che, da governatore della Bitinia, fu costretto a mandare a morte alcuni cristiani, per rispettare la legge). Dedicato alla Beata Vergine Assunta, il Duomo di Como è il terzo edificio religioso più grande della Lombardia, dopo quello di Milano e la Certosa di Pavia. A quest’ultima l’accomuna l’anno di fondazione, 1396, inciso sulla facciata posteriore. La costruzione durò fino al 1744, quando fu ultimata la cupola. I Plinii vennero scolpiti ai lati del portale da Tommaso e Giacomo Rodari (1480 ca.), in un’epoca di grande fervore umanista, e i loro concittadini li difesero anche durante la Controriforma, quando il visitatore apostolico G. F. Bonomi avrebbe voluto rimuoverli. Sulla facciata sud è incastonata un’iscrizione dedicata a Plinio il Giovane, trovata da Benedetto Giovio nel 1498. Copie delle statue dei due Plinii si trovano anche nei magazzini della Cattedrale e al Museo civico: furono realizzate nel 1911 per esporle alla grande mostra che si tenne a Roma in occasione del 50° dell’unità d’Italia, nella quale però venne esposta la sola statua di Plinio il Giovane. I loro busti, infine, sono tra quelli dei comaschi illustri posti sulla facciata del liceo classico e scientifico Alessandro Volta”.
ALESSANDRO VOLTA
«La pila è la base fondamentale di tutte le invenzioni moderne», disse Albert Einstein visitando il Tempio Voltiano nel 1933. Il monumento in stile palladiano, progettato dall’architetto Federico Frigerio e finanziato dall’industriale Francesco Somaini, era stato costruito nel ’27 (e inaugurato a luglio del ’28), in occasione delle celebrazioni per il centenario della morte di Alessandro Volta, che avevano portato a Como 12 premi Nobel, più altri sei scienziati che avrebbero ottenuto il riconoscimento in seguito: i loro nomi sono effigiati nell’aula dell’Istituto Carducci (nel vicino viale Cavallotti), che ospitò il convegno, da allora ribattezzata Sala dei Nobel. Il Tempio custodisce una raccolta degli strumenti scientifici di Volta (in parte copie, poiché gli originali furono distrutti da un incendio che devastò i padiglioni delle celebrazioni del 1899), il fisico comasco, che nel 1799 aveva inventato la pila, primo generatore statico di energia elettrica (non a caso è stato dato il nome Volt all’unità di misura del potenziale elettrico) e nel 1776 aveva anche scoperto il gas metano, da lui utilizzato per mettere a punto la “lampada di Volta” e la “pistola elettroflogopneumatica”, antenate dell’illuminazione a gas e degli accendini. Volta si dedicò anche alla poesia e, curiosamente, in un testo giovanile fa cenno all’area degli attuali giardini a lago, dove sorge l’edificio a lui dedicato. Si tratta di un testo ironico in cui si fa beffe dei ginnasiali, se stesso compreso, che lì si recavano per flirtare con le loro belle (ma, secondo un’altra interpretazione, potrebbe trattarsi anche di una casa di tolleranza che si trovava nel centro storico). «Giran costor d’attorno a questa e a quella / massime poi in un certo distretto / che Prato d’Orchi oggi da noi s’appella»… Perché chiamassero così la zona, è facile immaginarlo: allora la foce del torrente Cosia era più ampia e scoperta e attraeva insetti a volontà.
PAOLO GIOVIO
Bisogna venire a Como per guardare in faccia Cristoforo Colombo, o quanto meno quello che è ritenuto il suo primo ritratto. Senza contare che quel ritratto, ora in Pinacoteca, è parte del primo museo del mondo, quello di Paolo Giovio (1483-1552), che, parola di Price Zimmermann della Princeton University, attraverso la propria collezione di “uomini illustri” diede «il suo contributo più originale alla civiltà europea» e offrì ai Medici l’idea di duplicarla alla Galleria degli Uffizi di Firenze dove costituisce ancora oggi una formidabile attrazione. Giovio costruì la sua villa museo, a suo dire sulle rovine di una dimora di Plinio il Giovane, attorno al 1539, ma oggi la si può vedere solo in tre dipinti conservati tra la Pinacoteca e il Museo Archeologico di Como, perché l’arditezza della costruzione, protesa nel lago, ne determinò anche la precoce rovina a causa delle esondazioni, tant’è che nel 1619 fu demolita da Marco Gallio per costruire l’attuale Villa Gallia. Al precursore del museo moderno, uno dei maggiori poeti suoi contemporanei, Pietro Bembo, rese omaggio in un sonetto: «Giovio, che i tempi et l’opre raccogliete / Quante ha degne di luce il secol nostro / Con sì leggiadro et pellegrino inchiostro, / Che chiaro et charo et sempre viverete…».
UGO FOSCOLO
Il busto di Ugo Foscolo (1778-1827) dal 1884 scruta il primo bacino del lago di Como dal parco di Villa del Grumello, a ricordo imperituro dei giorni, e dei sentimenti, che visse in questo luogo. Fu la famiglia Celesia, che nel 1954 avrebbe poi donato il compendio all’ospedale Sant’Anna creando le condizioni per un uso pubblico degli spazi caratterizzati dal 2006 per le finalità culturali e scientifiche perseguite dall’Associazione Villa del Grumello, a volere questa statua. Il grande poeta fu legato ai precedenti proprietari, i Giovio, di quella che è stata una delle prime ville del Lario costruita nella seconda metà de XVI secolo. Amico del conte Giovan Battista, e da lui presentato ad Alessandro Volta, altro ospite illustre del Grumello, Foscolo ebbe una liason con la più giovane delle figlie del padrone di casa, Franceschina. A lei dedicò parte del suo poema Le Grazie, dove anche il lago è protagonista: «Come quando più gaio Euro provoca / su l’alba il queto Lario, e a quel sussurro / canta il nocchiero…». Però non corrispose fino in fondo l’amore di lei e sul basamento del busto è riportato uno stralcio della sua lettera di addio, datata “Borgo Vico 19 Agosto 1809”: «Tornandomi una sera a Grumello, e guardando il lago, i colli e la casa dove io vi aveva veduta la prima volta, e pensando ch’io dovea presto lasciarli, il mio desiderio di dimorarvi sempre non distingueva voi dai luoghi e dalle persone che m’erano divenute sì care».
CANINIO RUFO
Il mito della villeggiatura sul lago di Como nasce con Plinio il Giovane. E secondo Giovan Battista Giovio (cfr Lettere lariane, 1827) era l’attuale Villa Olmo la dimora del poeta latino Caninio Rufo, descritta con dovizia di particolari in una delle sue lettere. E proprio a questa lettera, ancora oggi tradotta nei licei italiani, deve la sua immortalità: «Come sta Como, la città del tuo e del mio cuore? E l’incantevole tenuta suburbana? E quel portico in cui è sempre primavera? E il plataneto denso di ombra? E il canale con le sponde tanto verdi e le acque tanto pure?…». «Modella e scolpisci un qualcosa che sia perennemente tuo – è l’esortazione che Plinio rivolge infine all’amico -. Perché tutti gli altri tuoi possedimenti riceveranno in sorte dopo di te un altro padrone e un altro ancora». Forse Caninio Rufo avrebbe potuto fare di più per seguire i buoni consigli, se nessuna opera sua è giunta fino a noi, ma la citazione pliniana è valsa anche a lui un busto, che potete vedere sulla facciata del liceo Volta in via Cantù. Nel 2015, durante i lavori di ristrutturazione del compendio che ha origine settecentesca, emersero nel giardino un muro romano, che qualcuno ha interpretato come una prova dell’intuizione gioviana.
MARY E PERCY SHELLEY
Ad aprile del 1818, mentre in Inghilterra è da poco uscito, anonimo, il suo capolavoro “Frankenstein o il Prometeo moderno”, Mary Shelley arriva per la prima volta con il marito Percy sul lago di Como. Non per caso, bensì… per i Plinii, già tra gli ispiratori, assieme a un terzo comasco illustre, l’inventore della pila Alessandro Volta, del retroterra culturale da cui era nato “Frankenstein” e anche del saggio di Percy “La necessità dell’ateismo”, nel cui incipit è citata una frase di Plinio il Vecchio: “Ciò che gli altri chiamano dio io chiamo natura”. Gli studi di Volta e Galvani sull’elettricità, e un macabro esperimento/spettacolo portato in Inghilterra dal nipote di Galvani che elettrizzava con una grande pila cadaveri di condannati a morte, sono alla base di “Frankenstein”. Colpito dai fenomeni elettrici e dalla scienza sperimentale, il dottore eponimo abbandona le letture dei naturalisti del passato, salvando però due autori: «Plinio e Buffon», giganti del I e del XVIII secolo, da lui ritenuti «tanto utili quanto interessanti». Nel 1831 Mary Shelley pubblicherà una seconda edizione di “Frankenstein”, questa volta firmata, in cui cambia la storia di Elizabeth, la sorellastra-moglie del dottor Frankenstein, facendola diventare una trovatella, figlia di un patriota italiano perseguitato dagli austriaci, adottata durante una vacanza proprio sul lago di Como. Nel 1844, per amore di un patriota, Mary pubblicherà “A zonzo per la Germania e l’Italia”, il cui primo volume è quasi interamente dedicato ai due mesi trascorsi sul Lario nel 1840. Il giorno di ferragosto si reca al Teatro Sociale in battello da Cadenabbia per assistere alla “Lucia di Lammermoor” di Donizetti, definisce la sala “pulita e graziosa”, e sul sipario ritrova Plinio il Vecchio dipinto da Alessandro Sanquirico nel 1812 (il velario storico è stato restaurato nel centenario). Il lago di Como, dove tornerà un’ultima volta pochi mesi prima di morire, ricorderà sempre a Mary l’idillio con Percy e il loro progetto, mai realizzato, di passare l’estate del 1818 a Villa Pliniana assieme a Lord Byron.
“Se non hai mai vistato quel delizioso e sublime scenario, penso che ti ripagherebbe della fatica – aveva scritto Shelley all’amico in un’accorata lettera di invito -. Verresti a passare qualche settimana con noi quest’estate? […] Il luogo che abbiamo scelto (la Villa Pliniana) è solitario e circondato da un paesaggio di sbalorditiva magnificenza, col lago ai nostri piedi”. La coppia di celebri autori, tuttavia, non riuscì ad affittare la villa, ma ciò non le impedì di trasformarla in un luogo letterario (in particolare nel poema “Rosalind e Helen” di Percy e nel romanzo “L’ultimo uomo di Mary).
FILIPPO TOMMASO MARINETTI
Non esisterebbe il Monumento ai Caduti di Como, almeno non nella forma attuale che con i suoi 30 metri di candida pietra caratterizza lo skyline del lungolago, se non fosse per un poeta, Filippo Tommaso Marinetti. L’autore del Manifesto del Futurismo (1909), nel ‘30 venne a Como per celebrare Antonio Sant’Elia, l’architetto della “Città nuova” tra i suoi più geniali seguaci, e colse l’occasione per imporre come modello per il sacrario dei soldati morti nelle Grande Guerra, tra i quali lo stesso Sant’Elia, il disegno del suo pupillo di una “torre faro”. Il progetto fu ultimato da un altro grande architetto, Giuseppe Terragni, maestro del razionalismo europeo, che morì nel ’43 per i postumi della campagna di Russia. Ora i nomi dei due, Sant’Elia e Terragni, sono incisi sullo stesso monolite di 40 tonnellate, assieme ad altri 648 caduti comaschi, proveniente dal Carso e posto all’interno del Monumento. Il più giovane aeropoeta futurista, Ubaldo Serbo, triestino che finì la carriera giornalistica a La Provincia di Como, celebrerà anni dopo, nel suo Poema e pianto per F.T. Marinetti, il fondatore del futurismo (morto a Bellagio nel 1944), l’architetto della Città Nuova e il Lario, appassionatamente insieme: «[…] lento andare verso il promontorio l’onda del lago di Como nell’ombra / che sta per divenire angoscia[…] / la morte sfugge risponde beffarda nell’acqua nell’acqua nell’acqua di questo lago Sant’Elia / rispecchiava sogni…»
AUGUST STRINDBERG
Da Villa Geno è possibile ripetere, almeno in parte, il percorso che il grande scrittore svedese August Strindberg fece, all’andata in barca e al ritorno a piedi, per raggiungere in Crotto del Nino (ora casa vacanze), poco prima di Blevio. Lo racconta lui stesso nel libro in “Dall’Italia”. Era il 1884, al tempo in cui scelse di vivere nella Svizzera delle utopie sociali, e la sera del 15 di marzo, un sabato, al termine di un viaggio da questa parte della frontiera, fece tappa a Como con la famiglia. La mattina dopo, racconta Strindberg, «alle sei scesi al porto per trovare una barca». Un altro dettaglio ci dice che procede costeggiando la riva di levante: «Passiamo sotto alcuni salici piangenti in germoglio, nei pressi di una villa inglese. C’è un piccolo padiglione su una lingua di terra. Attraverso una finestra con un’inferriata un mucchio di volti curiosi guarda fuori, ma mi stupisce che abbiano tutti il capo bianco…». Per forza, sono teschi, come capirà lo stesso scrittore avvicinandosi: memoria «della grande peste», gli dice il barcaiolo, quando sulla punta di Geno sorgevano il lazzaretto e la chiesa di San Clemente. Al ritorno percorse l’antica strada regia che «sotto castagni e noci si inerpicava costeggiando una parete montuosa e poi a poco a poco, passando davanti a fabbriche di seta, giungeva in città». Una di queste era la Dolara di fianco all’attuale stazione della funicolare. Dietro passa ancora una delle antiche viuzze che salgono verso la carrozzabile via Torno, passando dall’ottocentesca Cappella della Nosetta, costruita come ex voto per la protezione che la Madonna garantì a quella che allora era la riva delle lavandaie, in occasione di una frana e del colera.
HERMANN HESSE
Sul lungolago seguiamo Hermann Hesse, Premio Nobel del 1946, e la sua “Passeggiata sul lago di Como” del 1913, descritta nel volume “Dall’Italia”. «Diversamente da Lugano e da tutte le celebri cittadine lacustri, Como volge le spalle al lago, e anche nel grazioso piazzale del porto non si prova la tediosa e inquietante sensazione di sedere in prima fila davanti ad un paesaggio creato ad arte». Certo, poco dopo critica il monte che sarà l’approdo del nostro cammino poetico – «L’unica cosa fuori luogo, a Como, è lo scosceso pendio sulla cui sommità si trova Brunate, con squallidi edifici pretenziosi ed enormi cartelli con su scritto Porta o Fernet Branca» – ma se vi fosse salito anche lui a piedi per i boschi, come vi consigliamo di fare seguendo la Lake Como Poetry Way, si sarebbe ricreduto. Il ogni caso il giorno dopo, durante una gita in battello, non potè resistere all’incanto: “Eppure, ancora una volta, questa bellezza mi sedusse e mi incantò: il romanticismo rupestre dei villaggi scoscesi, la severità consapevole delle ville aristocratiche con giardino, parco e darsena, la socievole vicinanza di campi e fabbricati”. A Torno addirittura non osò scendere dal piroscafo: “Era un quadro perfetto, così incantevole che non volli rischiare di spezzarne l’armonia”. Concluderà la sua passeggiata sull’altra sponda del lago, a Moltrasio.
GIACOMO LEOPARDI
Correva l’anno il 1880 quando Zanino Volta, nipote dell’inventore della pila, scoprì nella soffitta della casa di famiglia, al n. 62 dell’omonima via, il manoscritto di un canto giovanile di uno dei più grandi poeti italiani di ogni tempo, Giacomo Leopardi, e lo pubblicò a proprie spese, facendo poi dono del prezioso documento alla collettività. Oggi, infatti, è custodito ai Musei civici di Como ed esposto in occasione di iniziative particolari. L’“Appressamento della morte” è un’opera giovanile che il genio recanatese compose a 18 anni, nel 1817, non paragonabile con “L’infinito” e gli altri canti famosi, ma se dell’”Infinito” il manoscritto più importante è conservato a Napoli, nel caso dell’”Appressamento” la critica ha attribuito maggior valore al manoscritto comasco rispetto a quello napoletano e per questo lo si trova riportato sia nell’opera omnia di Leopardi edita da Sansoni nel 1969 sia sul web. Inoltre il quinto canto, il più valido, è già una prova potente della poetica leopardiana e anche di quella sua peculiare “arte di essere fragili”: mentre sente la morte appresso, il poeta postadolescente è già consapevole della propria grandezza e si rammarica per ciò che il mondo perderà con la sua persona. Ma cosa ci faceva questo reperto letterario a casa di Volta? Probabilmente l’editore milanese Antonio Fortunato Stella, che aveva consigliato a Leopardi di rivederlo prima di un’eventuale pubblicazione, lo aveva donato all’illustre prozio scienziato. Lo stesso Leopardi venne a Como nel 1825, pare proprio per cercare di recuperarlo, ma non vi riuscì. Di certo Volta fu amico della poesia e dei poeti: scrisse centinaia di versi e fu legato in particolare a Foscolo ea Silvio Pellico, che gli dedicò un poema in cui lo ringrazia per averlo indotto a convertirsi, dopo un incontro a Como nel palazzo Lambertenghi.
CECILIO
Lui c’era quando furono innalzate le mura di Novum Comum, per iniziativa di Giulio Cesare nel 59 a.C., ed è ancora presente, per giunta nel luogo più nobile e sacro della città: la Cattedrale. Il poeta Cecilio è il terzo pagano ad aver trovato eterna dimora in Duomo, scolpito dai fratelli Rodari (Tommaso e Giacomo, figli di Giovanni cui si devono i podi dei Plini ai lati del portale di ingresso) mentre legge un libro, sulla facciata Sud. Ma anche quel libro (peraltro ai tempi dei romani si usavano i rotoli) non è arrivato fino a noi e sappiamo che Cecilio lo ha scritto solo grazie al “Carme 35” che gli ha dedicato uno dei massimi poeti della romanità, Catullo. «Voglio che tu dica, papiro, / al mio amico e dolce poeta Cecilio, / che venga a Verona, lasciando / Como e le rive del Lario, / e ascolti qualche riflessione / di un amico suo e mio…». Catullo teme che Cecilio non lascerà mai Como, perché lo trattiene una bella ragazza, che ha perso il senno dopo aver letto il folgorante incipit di un suo poema dedicato alla dea Cibele. «Ti compatisco, ragazza più colta / di Saffo: è davvero bellissimo / l’inizio di Cecilio sulla Grande Madre»: i versi finali valgono più di una “recensione” e hanno garantito all’autore l’immortalità.
LEONARDO DA VINCI
Navigare dal lago di Como fino a Milano: Leonardo da Vinci applicò il suo ingegno persino a questo eccezionale progetto, come rivela la prima mappa dei laghi briantei da lui disegnata (foglio 740 recto del Codice Atlantico). Seguire il corso del fiume Lambro, che il genio vinciano aveva pensato di sfruttare per facilitare i trasporti tra il Lario e il capoluogo lombardo, può essere un modo affascinante per riscoprire le orme da lui lasciate nel Comasco. Ma lo è ancora di più avventurarsi sulla sponda orientale del Lario. Sempre nel Codice Atlantico, Leonardo si sofferma a osservare la Pliniana di Torno, fonte intermittente che aveva già incuriosito i due Plinii e che, ci dice con precisione da guida turistica, si trova a quattro miglia da Como. Il foglio 573 b verso del Codice Atlantico è quasi un taccuino di viaggio: «Piussu 2 miglia [rispetto alla Pliniana, nda] e nessa, tera dove cade uno fiume chon grande enpito per una grandissima fessura di monte» e aggiunge anche un’utile indicazione turistica: «Queste gite son da fare nel mese di maggio». Si tratta dell’orrido di Nesso, naturalmente, e della cascata alta 200 metri formata dalla confluenza dei torrenti Tüf e Nosè. Una curiosità: il “datore di lavoro” di Leonardo, Ludovico Sforza, aveva donato nel 1457 l’intera Pieve di Nesso, che comprendeva 11 comuni incluso Torno, alla sua amante Lucrezia Crivelli, quasi certamente ritratta dal grande artista. Alcuni la identificano nella “Belle Ferronnière” (1490-95) esposta al Louvre, altri nel “Ritratto di dama” (1496) conservato nel caveau di una banca svizzera
ALDA MERINI
A Brunate ci conduce una delle voci poetiche più note e importanti del ‘900 italiano, Alda Merini, attraverso la mulattiera costruita nel 1817, che permise ai suoi nonni di conoscersi e sposarsi. «Mio padre, un intellettuale molto raffinato figlio di un conte di Como e di una modesta contadina di Brunate, aveva tratti nobilissimi. Taciturno e modesto, sapeva l’arte di condurre bene i suoi figli e fu il primo maestro»: è l’incipit dell’autobiografia meriniana “Reato di vita” (1994). Nonno Giovanni fu diseredato perchè scelse di sposare Maddalena Baserga e vivere umilmente a Brunate, dove nel 1885 fondò la Società di mutuo soccorso ancora attiva. In paese nacque anche papà Nemo. Per ricordare il legame della poetessa con il “Balcone sulle Alpi” dal 2011 a Brunate si celebra il Premio internazionale di letteratura a lei intitolato. Se il legame con i parenti andò progressivamente dissolvendosi in seguito ai ricoveri in manicomio della poetessa, quello ideale e affettivo con i luoghi non venne mai meno, tant’e vero che sia Alda sia le figlie hanno più volte riportato in pubblico un aneddoto legato alla funicolare. Pare che la poetessa usasse spesso lamentare problemi di salute («Il mio cuore è attaccato a un filo», ripeteva), finché un giorno un parente la zitti con questa battuta diventata proverbiale in famiglia: «Ma va’ la, ché il tuo cuore è attaccato al cavo della funicolare!».
PENCIO SLAVEJKOV
Pencio Slavejkov, il “Leopardi bulgaro” (grande poeta romantico e civile, patriota in prima linea contro la dominazione turca, nonché direttore prima del Teatro e poi della Biblioteca nazionale di Sofia) scelse Brunate come meta ultima della sua vita terrena: morì il 10 giugno del 1912, a 46 anni, nella stanza numero 4 del panoramico Hotel Bellavista. Sulla parete del medesimo, una lapide in memoria riporta due versi che appaiono un omaggio al luogo: «Qui terminare i giorni a me conceda Iddio / Solo e lontano dal caro suol natio». Qui, dove lo sguardo abbraccia tutta la Lake Como Poetry Way. Slaveikov era giunto a Brunate ai primi di giugno del 1912, si è detto, a lungo, ché il clima lacustre gli fosse stato consigliato per curare i problemi respiratori che lo affliggevano dall’età di 18 anni, quando era rimasto vittima di un semiassideramento. Ma nel 2016 il ricercatore bulgaro Emil Dimitrov ha trovato una cartolina di Brunate, e precisamente dell’Hotel Bellavista, tra quelle che il poeta aveva collezionato durante un precedente viaggio in Italia. Quindi la sua fu anche, se non esclusivamente, una scelta estetica. Le sue ultime consolazioni furono la notizia, giunta da Stoccolma, che il suo nome era tra i candidati al Nobel, l’amorevole assistenza della compagna-poetessa Mara Belceva e il panorama di Brunate. Nel novantacinquesimo anniversario della morte, il governo bulgaro ha collocato nel giardino della Biblioteca di Brunate un busto di granito di Slavejkov, opera dello scultore Valentin Starčev.
LUIGI DOTTESIO
«I nostri padri gli eressero una statua in luogo sacro: sarebbe degno […] della gentilezza dei presenti costumi crescer lustro alla patria nostra con un’opera che […] congiungesse l’età di quei due nostri grandissimi, Plinio e Volta». Così scrisse Luigi Dottesio a proposito di Plinio il Vecchio nel suo libro Notizie biografiche degli illustri comaschi, edito nel 1847 dalla Tipografia Elvetica di Capolago (Ch), della quale l’autore, allora vicesegretario comunale, importava clandestinamente i testi proibiti nel Regno Lombardo-Veneto. Un contrabbando di cultura e ideali che pagò con la vita: arrestato al valico di Roggiana (tra Vacallo e Maslianico) il 12 gennaio 1851 fu impiccato a Venezia l’11 ottobre successivo. Un martire della libertà di stampa, la cui biografia può a sua volta essere di ispirazione per l’oggi: primo popolano a rappresentare Como in occasioni ufficiali, visse una straordinaria storia d’amore con un’altra patriota, Giuseppina Bonizzoni, di cinque anni più grande di lui e madre di sei figli, e si sacrificò per un Paese che immaginava unito in primis dalla cultura.
ALFRED HITCHCOCK
Il lago di Como è il preferito dal cinema. Le sue sponde sono state set per oltre cento film internazionali, a partire dai Fratelli Lumière fino a George Clooney, sicuramente il maggiore testimonial del Lario negli ultimi anni. Ma prima di lui vi è stato un altro grande protagonista della storia del cinema che ha frequentato queste sponde per quasi mezzo secolo, Alfred Hitchcock. Il maestro del brivido arrivò per la prima volta sul lago nell’inverno del 1924 come aiuto regista di Graham Cutts, alla ricerca di una location per il film “Il peccato della puritana”. Non fu possibile effettuare riprese, a causa del maltempo, ma “Hitch” si innamorò delle atmosfere lacustri e l’estate successiva tornò per girare le scene della luna di miele del suo primo film, “Il labirinto delle passioni”. Scelse, in particolare, tre location cui rimase affezionato per tutta la vita: Villa d’Este di Cernobbio, l’Isola Comacina e l’orrido di Nesso, dove un antico ponte di pietra, detto della Civera, unisce due rive separate da una spettacolare cascata, già studiata da Leonardo da Vinci. A dicembre del ’26 Hitchcock è di nuovo sul lago di Como per un’altra luna di miele, questa volta la sua, con Alma Reville, già presente nello staff l’anno precedente come segretaria e con la quale rimarrà sposato fino alla morte, avvenuta nel 1980. Gli ex proprietari della locanda dell’Isola Comacina conservano alcune foto scattate da lui e una Polaroid, che inviò loro in dono dopo l’ultima visita, avvenuta nel 1972.
SILVIO PELLICO
Una via Silvio Pellico si trova a Como (frazione Tavernola) e anche in tanti paesi del Lario: non si tratta soltanto di un omaggio al Risorgimento italiano e a uno dei suoi protagonisti, ma anche di una doverosa sottolineatura del forte legame che l’autore de “Le mie prigioni” ha avuto con il territorio. Un legame che ha raggiunto la massima intensità proprio nei giorni precedenti il suo arresto, avvenuto il 13 ottobre di duecento anni fa. Il principale “datore di lavoro” di Pellico è stato il comasco Luigi Porro Lambertenghi, che lo assunse come segretario e precettore dei figli. Di conseguenza lo scrittore ha frequentato costantemente le numerose dimore che il conte manteneva in provincia di Como, anche se aveva stabilito la sua residenza principale a Milano: da quella oggi più in rovina, la villa Porro Lambertenghi di Cassina Rizzardi, che non a caso sorge in piazza Silvio Pellico, a quella che al contrario gode del maggiore lustro internazionale, il Balbianello di Lenno, passando per il palazzo di famiglia nell’omonima via del capoluogo. Probabilmente in quest’ultimo lo scrittore conobbe Alessandro Volta e fu un incontro memorabile perché grazie al devoto scienziato Pellico riscoprì la fede, che è poi stata un’àncora di salvezza in carcere nonché l’altro tema fondamentale de “Le mie prigioni” assieme a quello patriottico. In una poesia intitolata proprio “Alessandro Volta”, Pellico rievoca quell’incontro: «In tua vecchiezza, a me giovin demente / T’avvicinava il caso…. ah! non il caso, / Ma la bontà del senno onnipotente!». Al Museo della barca lariana di Pianello del Lario è conservata l’imbarcazione con cui Pellico attraversò il lago da Lezzeno, dove aveva passato la notte nascosto nella cantina dell’Osteria del Governo, al Balbianello, il giorno in cui fu poi catturato al rientro a Milano, ovvero il 13 ottobre 1820.
FRANZ LISZT
«Sì, amico mio, se voi vedete passare nei vostri sogni la forma ideale di una di quelle donne, la cui bellezza d’origine celeste non è un’insidia per i sensi ma una rivelazione per l’anima; se accanto a lei vi appare un giovane dal cuore onesto e sincero, immaginata tra loro una commovente storia d’amore e iniziatela con queste parole: “Sulle rive del lago di Como”». Con queste celebri parole Franz Liszt celebrò la bellezza del lago di Como, ammaliato in particolare da un soggiorno a Bellagio, dove oggi porta il suo nome la casa vacanze che allora lo ospitò, e la statua di Dante e Beatrice nei giardini di Vila Melzi d’Eril è stata testimone dell’idillio tra il musicista ungherese e Marie Sophie de Flavigny, contessa d’Agoult. La coppia arrivò in riva al lago di Como nel mese di settembre del 1837. Era il primo viaggio in Italia del compositore, un Grand Tour ma anche una fuga d’amore: madame de Flavigny, di sei anni maggiore di lui, aveva infatti lasciato il marito per fuggire con il giovane artista ed era in dolce attesa. Guidato da colei che poi si affermerà come scrittrice con lo pseudonimo di Daniel Stern, il ventiseienne musicista fissò sulla carta il diario dei giorni lariani nelle “Lettere di un baccalauro in musica”, scritte a Bellagio e pubblicate sulla “Revue et Gazette musicale de Paris”. Bellagio ispirò la composizione dei 12 “Grandi Studi S 137”, versione primigenia di quelli che diverranno gli “Studi d’esecuzione trascendentale”, e fornì il primo spunto per la “Dante sonata”, suggerita dal ricordo delle letture della “Commedia” all’ombra della già citata scultura dantesca, opera di Giovan Battista Comolli. A Como, dove Liszt tenne un concerto al Teatro Sociale il 29 dicembre, nacque la vigilia di Natale la figlia Cosima, poi andata in sposa a Richard Wagner. Marie Sophie de Flavigny partorì all’albergo dell’Angelo, oggi sede della Banca nazionale del lavoro, che ha affisso una targa sulla facciata per ricordare il lieto, e memorabile, evento.
WILLIAM TURNER
Secondo le ricostruzioni effettuate dagli esperti della Tate gallery di Londra, due vedute di Bellagio da Menaggio sarebbero i primi acquerelli realizzati in Italia da William Turner durante il viaggio del 1819 (primato conteso da un terzo che raffigura lo skyline di Milano). Matthew Imms, il compilatore delle schede delle due opere, è arrivato a definire con una certa precisione dove e quando il grande artista inglese abbia dipinto la più complessa, quella con le barche in primo piano sulla spiaggia menaggina e la l’iconico promontorio di Bellagio sullo sfondo. Turner si sarebbe piazzato con il cavalletto su un «piccolo molo di pietra in via Giuseppe Mazzini» e il «trattamento del cielo e delle montagne lontane suggerisce che abbia lavorato nel pieno sole pomeridiano». Non a caso Turner fu soprannominato “il pittore della luce”, elemento distintivo nei suoi quadri, comprese alcune vedute del porto di Como, del quale rimane il più autorevole testimone, visto che fu poi interrato nel 1869 per fare spazio all’attuale piazza Cavour. Turner raffigurò il lato occidentale del porto, quello dove si trova l’hotel Metropole Suisse, a quei tempi magazzino a un piano, in un crescendo che parte dallo schizzo a matita del 1819 e arriva all’acquerello “Como: sunset” del 1843, dal quale emerge la peculiare visione di quell’«adoratore zoroastriano del sole», come lo definì John Ruskin. Secondo recenti ricostruzioni, documentate sempre nel catalogo online della Tate Britain di Londra, Turner nel 1819 soggiornò all’Albergo dell’Angelo, dalla cui finestra avrebbe realizzato il primo schizzo del porto di Como. Certi almeno altri due suoi viaggi sul lago di Como, nel 1841 e nel 1843.